Per raccontare questa storia è necessario un prologo. Quando avevo 7 o 8 anni e frequentavo la scuola elementare ero una bimba obesa e pigra. Avete presente quando da bambini in palestra si fanno le squadre? Ecco… per me quel momento è sempre stato un incubo. Ero sempre l’ultima ad essere scelta. Ma forse la cosa che odiavo di più in assoluto erano i giochi della gioventù: la campestre! Quella non so perché la dovevamo fare tutti, i mal di pancia che mi facevo venire! Tutto pur di non gareggiare. Lo sport proprio non faceva per me.
Mi piaceva la scuola, mi piaceva leggere, mi piaceva disegnare: insomma ero quel tipo di bambina lì. Ah no… una cosa la facevo. Andavo in piscina, due volte a settimana (nulla di che eh!), andavo in piscina perché in seconda media mi scoprirono una scoliosi piuttosto grave. E oltre al busto notte e giorno la prescrizione prevedeva il nuoto.
La storia (di 46percento)
Come da previsioni ho continuato a studiare (ricordate? Ero una secchiona), mi sono laureata, sono diventata grande, crescendo nella mia città, Cesena: insomma, nulla di particolare da dichiarare. La mia scoliosi era lì, insieme alla mia pigrizia, alle passioni tutte cerebrali e creative che mi avevano sempre distinto. Poi un giorno… Spesso nella vita c’è un POI che cambia tutto. Poi mentre aspettavo il mio secondo figlio, era il 2006, un medico mi informa che la mia scoliosi nonostante tutti miei sforzi per tenerla a bada non è più sotto controllo e dovrò essere operata appena mio figlio nascerà.
A casa avevo Margherita di un anno e mezzo, con me nel pancione Alberto, ricordo quel momento come fosse ieri. Avevo un abito nero leggero con grandi fiori bianchi, era estate, faceva caldo. Il medico mi disse: “Se non si opera finirà in sedia a rotelle entro i 50 anni. L’intervento è delicato, c’è una possibilità che rimanga paralizzata. Se andrà bene, quando tutto sarà finito lei potrà riprendere la sua vita ma con alcune precauzioni. Non potrà più prendere in braccio i suoi figli e si dovrà fare aiutare per la spesa. Niente tacchi, niente equitazione, sci….”
Non potrà prender più in braccio i suoi figli. Alberto nel pancione, Margherita di un anno e mezzo a casa. Non potrà più prendere in braccio i suoi figli.
Mi hanno operato a gennaio del 2008 a Padova. Alberto aveva appena compiuto un anno. Margherita non ne aveva ancora tre. Non ero mai stata lontana da loro. Era previsto un ricovero di 10 giorni. Gli avevo preparato una sorta di calendario dell’avvento con un regalo per ogni giorno senza me. 10 regalini, più una serie di regalini di scorta nel caso le cose fossero andate male.
Le cose non andarono male.
Mi svegliai dopo molte ore di intervento: le mani e i piedi rispondevano ai comandi. Mi avevano bloccato 12 vertebre. Avevo due barre di titanio di 40 cm e una ventina di viti nella schiena. Ma era andato tutto bene. Solo che avevo un corpo nuovo, una nuova postura, una schiena che non si piegava più. Dovevo imparare di nuovo a camminare, a muovermi. Sentivo solo ed esclusivamente dolore.
Il prima e il dopo
Questa storia è fatta da un sacco di sfumature, occhi gonfi di lacrime, sorrisi forzati e abbracci delicati… come tante storie, forse tutte.
É fatta di quei momenti in cui la vita cambia e c’è un prima e un dopo. Nella vita di tutti noi c’è almeno un momento così. Dopo due mesi da quel risveglio, dopo i primi passi, la prima volta che ho fatto le scale, dopo settimane passate sul divano a leggere le favole ai miei bimbi, senza essere in grado di fare altro per loro, mi sono presentata in un centro di fisioterapia. Sapevo che lì riabilitavano diversi calciatori. Questa cosa mi ha sempre incuriosito: quando una persona normale si infortuna ci mette mesi e mesi per tornare operativa, quando si infortuna un atleta spesso in poche settimane è di nuovo in campo.
Io volevo tornare a vivere coi miei figli (quando mi sono operata vivevo da sola con loro), volevo tornare a passeggiare in montagna, volevo poterli cambiare, accompagnarli a scuola: volevo tornare a giocare la mia partita. Mi sono presentata al centro di fisioterapia, dicevamo, gli ho detto
“Sono una mamma, voglio essere riabilitata come un’atleta”
“Quanto sei disponibile a rimanere qua dentro?”
“Tutto il tempo che i miei figli sono all’asilo: dalle 8 alle 16”
Dal giorno dopo sono entrata in mondo che non conoscevo. Un mondo fatto di gesti semplici che si ripetevano all’infinito. Un mondo fatto di costanza, di impegno, di sudore. Un mondo sconosciuto e che giorno dopo giorno, senza che me ne rendessi conto, mentre salivo e scendevo da un muretto per 1000 volte di fila, mi insegnava a fare i gradini dell’autobus senza sentire quel dolore che all’inizio mi toglieva il fiato. Mentre fingevo di pulire i vetri della palestra, mi insegnava i gesti indispensabili per tornare ad occuparmi dei miei figli. Mentre raccoglievo le cose da terra, sempre per 1000 volte al giorno, mi faceva tornare capace di fare una valigia e caricarla in auto. Insomma quel mondo sconosciuto fatto di piccoli semplici gesti che si ripetevano all’infinito mi stava restituendo la vita.
Il primo di settembre del 2008 (mi avevano operato a gennaio) contro ogni previsione tornavo a vivere sola coi miei bambini di 3 e un anno e mezzo. Ancora dovevo avere mille accorgimenti nel fare i gesti quotidiani, ma ero su una nuova strada. Una strada che non avrei mai immaginato, una strada che non potevo lasciare. Tornare a camminare, dopo essermi risvegliata in un letto d’ospedale mi aveva fatto venire voglia di correre. Quel mondo fatto di gesti semplici che si ripetono, mi aveva fatto capire che a piccoli gesti ripetuti potevo conquistare forse qualunque cosa.
Ad un anno dall’intervento ero in grado di prendere in braccio Alberto (“Non potrà più prendere in braccio i suoi figli”), facevo spesa da sola e avevo sostituito le lunghe ore di fisioterapia del periodo di convalescenza con allenamenti regolari che incastravo tra il lavoro e gli impegni dei ragazzi.
Come un’atleta
Poi un giorno, nel 2014, ad una gara di triathlon pensai “Anche io voglio tagliare quel traguardo”. Era una follia, e io non ero un’atleta, non avevo nulla dell’atleta e avevo 12 vertebre bloccate. Ma c’era con me Gabriele, il mio nuovo compagno, e forse c’erano dei gesti semplici che avrei potuto ripetere infinite volte per arrivarci.
Nel 2015 ho tagliato il traguardo del triathlon sprint di Riccione. Io, che nel frattempo avevo subito un secondo intervento (nel 2012) io, quella bambina obesa e pigra che si faceva venire il mal di pancia per non fare la campestre. Avevo scoperto l’atleta dentro di me? Assolutamente no… ora so per certo che non c’è un atleta dentro di me, che in me non c’è nessun talento sportivo. Ma so altrettanto bene che il talento è un elemento sopravvalutato, certamente è un tratto distintivo dei grandi campioni, ma senza allenamento, senza quei semplici gesti ripetuti infinite volte, nessuno arriva al traguardo, che sia l’insignificante traguardo di un appassionato, o il record del mondo.
Ho scoperto soprattutto che il talento è un alibi perfetto per chi non ce l’ha. L’ho scoperto tagliando il traguardo della mia prima gara di triathlon, ritornando alla mia vita quando sembrava impossibile, e lo scopro ogni giorno lavorando sodo per rimanere in forma nonostante la disabilità. Ho scoperto, soprattutto, che sono i piccoli gesti ripetuti infinite volte che ti portano dove vuoi andare. Non il talento!
PS: Il titolo di questo articolo mi è stato ispirato da Andrea Zorzi, con cui ho condiviso una bellissima esperienza su un palco davanti a 600 ragazzi delle scuole superiori di Forlì.
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